sabato 29 ottobre 2011

E' tempo di emigrare



Punto della situazione.
Dopo un paio di anni in cui il sistema informativo, utilizzando le intercettazioni più o meno giudiziariamente giustificabili, ha alimentato il dibattito sul Bunga Bunga, il Paese è sprofondato. Chi volesse può leggere negli archivi le prime pagine delle maggiori testate nazionali e troverà conferme: fino a giugno scorso si parlava d’altro e non di crisi. Il ricordo delle più note trasmissioni televisive di informazione da lo stesso risultato: Ballarò, Anno zero ed altri hanno riempito serate con quei temi.
Il risultato è che oggi si arranca, ci si aggrappa a idee vuote (encomiabili le nuove leve: roba che nemmeno alla V elementare!...) e si finisce per condividere tutto, perché i fondamentali pilastri sui quali si regge il Paese sono ampiamente accettati da tutti.
Come era prevedibile l’Italia si trova in un momento difficile, molto vicina alla Grecia, con tutti i distingui che pure vengono sbandierati(tanto per darsi coraggio).
Mentre autorevoli economisti (Paul Krugman) mettono in dubbio la validità stessa del sistema monetario europeo (una moneta senza governo e senza cittadinanza comune somiglia alle fisches del Monopoli) le forze politiche si contendono la maggiore capacità di attuare quanto chiesto dalla Bce. A parte la questione della maggiore “facilità di licenziare” (idea che il cavaliere accolla al parlamentare Pd Ichino) su tutto il resto vi è quasi una generale accettazione.
Senza entrare nel merito dei singoli punti, l’eccezione che si può sollevare rispetto a quanto sta accadendo riguarda una questione fondamentale ovvero se si tratta di impegni relativi a politiche di bilancio o si tratta, come è, di un vero è proprio programma di governo. E se è così si pone sempre di più un dubbio sulla persistenza o meno del concetto di sovranità che costituzionalmente promana dal popolo attraverso l’esercizio dei suoi poteri diretti o mediati. Qualcuno ha ancora voglia di citare l’articolo 11 della Costituzione sulla “ cessione di sovranità”? Attendiamo i prossimi mesi per chi avesse voglia di ripetere la solita litania imperniata su questo punto, quando(inevitabilmente) le piazze si riscalderanno.
Nel frattempo, privatizzazioni e liberalizzazioni, tanto per aprire la strada agli acquirenti, già in fila.
La verità è che nemmeno sull’orlo del baratro la classe dirigente di questo Paese è capace di trovare una soluzione e strumenti per risolvere i problemi presenti. Ancora non si scorge una presa d’atto su alcuni fondamentali incongruenze del sistema Italia.
Questo Paese soffre di alta pressione tributaria e di notevole spesa pubblica e nonostante tutto si ha notizia giorno dopo giorno della persistenza del famoso principio dei “diritti quesiti” per cui rendite consolidate (nel sistema pubblico) non possono essere toccate per “ragioni di giustizia”. Per fare un esempio, i doppi stipendi alla Catricalà hanno ancora ragione di esistere in questa situazione? e le pensioni d’oro alla Giuliano Amato? E gli emolumenti da manager nelle pubbliche amministrazioni(con l’imperdibilità del posto di lavoro, all’italiana)?
Una classe dirigente che non ha la capacità di rinunciare ai favori che si è concessa negli anni non può che vendere la pelle di tanti che arrancano, pur di sopravvivere.
Una classe dirigente orgogliosa del proprio ruolo saprebbe assumere decisioni, sia pure dolorose, ma capaci di ridare una prospettiva al Paese.
Il mondo non finisce con l’Europa e nemmeno con gli Usa(anche là ci sono scontri e proteste). Ci sono Stati che hanno affrontato crisi gravi e ne sono usciti con decisioni forti. Se continuiamo a seguire la Banca centrale europea che è preoccupata dall’ossessione di evitare la crescita dell’inflazione(perché il debito pubblico da versare alle banche non svaluti?) non ci sarà modo di uscire dalla crisi. Se diciamo si al diktat della Bce (del marzo scorso) e relativo al rientro al 60% per il limite del debito pubblico, conviene “portare i libri in tribunale” perché non ci sarà modo di adempiere. Soprattutto, se fosse questo il programma di governo basterebbe sostituire Governo e Parlamento con un buon amministratore, visto che non si offrono alternative credibili da parte delle forze politiche.
La tanto decantata crescita non ci sarà per il semplice fatto che la regolamentazione, i principi di governo dell’economia, che ci hanno portati a questa situazione non sono affatto cambiati. Gli Stati pagano le banche con i soldi dei cittadini, mediante tagli ai servizi e con aumento delle tasse. Le frontiere commerciali sono aperte e non c’è il minimo accenno a politiche di protezione della produzione(quella che è rimasta) di fronte alla concorrenza spietata dei Paesi extraeuropei. Altri Paesi assumono protezioni per favorire produzione e occupazione nazionale, in Italia no. Vedremo.
Nel frattempo l’Europa accetta prestiti dalla Cina, per prendere un po di ossigeno(proprio come debitori in stato prefallimentare). Ovviamente niente arriva gratis. Si è già compreso il prezzo da pagare:”la Cina si aspetta che l' Europa le riconosca lo status di economia di mercato. È qualcosa che i cinesi avranno automaticamente nel 2016, ma vorrebbero prima. Non per prestigio, ma perché non essere considerati economia di mercato comporta una penalizzazione quando si devono stabilire i prezzi equi nei casi di dispute antidumping. In qualche modo, Pechino vuole che i membri della Ue la smettano di sollevare questioni di concorrenza sleale (e magari di copyright).”
Nulla viene a caso: sarà la mazzata finale in nome del Credo della Globalizzazione ( a carico dei fessi).
Nel frattempo chi può si attrezza. Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Vicenza dice:”Creare relazioni con l'America Latina significa entrare in contatto con una realtà affine, che ama il Made in Italy e in forte espansione. Nel 2010 ha visto il Pil crescere in media del 6,9%, contro un dato mondiale del 3,8. Brasile e Argentina, vista la presenza di forti dazi, si prestano per operazioni di internazionalizzazione, con la creazione di unità produttive in loco. L'opportunità è valida per tutti, non solo per investimenti da milioni di euro».
Come dire: a questo punto anche per le imprese è tepo di emigrare.

mercoledì 26 ottobre 2011

Nobiltà vò cercando



Ieri sera da Gad Lerner Lucrezia Reichlin (figlia di Alfredo e Luciana Castellina) e Vittorio Cossutta (figlio di Armando) discutevano della manifestazione di oggi, invocata da Antonio Martino (figlio di Gaetano) e Giuliano Ferrara (figlio di Maurizio). In collegamento con la redazione romana de La7 c’era Gaia Tortora (figlia di Enzo).
Poco prima al tg 3, diretto da Bianca Berlinguer(figlia di Enrico) servizi di Francesca Barzini (figlia di Luigi) e di Antonio Di Bella (figlio di Franco).
Su Rai1: informazione con Natalia Augias(figlia di Corrado e Daniela Pasti) e Quark con Piero e Alberto Angela (figlio di Piero).
Sugli altri canali…..

sabato 22 ottobre 2011

'O Core 'e Napule



“D’altra parte quando diventi sindaco devi amministrare: e quando amministri, una cosa sono le chiacchiere, un’altra le difficoltà di trovare soluzioni».
Così Emanuele Macaluso, siciliano, direttore del quotidiano “Il Riformista”, già autorevole dirigente del Pci. In un’intervista di oggi discute di De Magistris a Napoli e lo raffronta a Leoluca Orlando sindaco della “Primavera di Palermo” in anni passati.
A proposito del Sindaco di Napoli esprime in conclusione cose condivisibili:«Non faccio l’indovino. Ma non c’è bisogno della sfera di cristallo per capire che a Napoli le cose andranno più o meno come andarono a Palermo. Questi movimenti dal basso interpretano una collera, uno stato d’animo, esigenze giuste ma volatili e prive di basi culturali solide, di un substrato organizzato e socialmente consolidato.”
Sembra proprio che le cose vadano in quella direzione. De Magistris non è collocabile in un alveo culturale sicuro, il che è una pecca ma costituisce una costante per tanti magistrati che di recente hanno intrapreso le strade della politica. Stessa caratteristica, che riguarda anche altri giovani leoni che in questi tempi calcano la scena politica, insieme ad altre: troppo ricorso alle emozioni, contestazioni di regole e gerarchie del proprio partito, immaginifiche rivoluzioni sui versanti(manco a farlo a posta) delle nuove tecnologie, ma scarsa voglia di contestare i fondamentali che governano economia e società in questo Paese. Quasi mai i nostri nuovi leader mettono il naso oltre i confini nazionali; la crisi che attanaglia il mondo occidentale è una cosa che poco li riguarda, presi come sono dalle polemiche quotidiane con questo o quell’altro esponente della “gerontocrazia” del partito.
De Magistris a Napoli ha fatto come i giocatori di rugby, a testa bassa ha sfondato tutto senza stringere alleanze con partiti politici ma privilegiando l’aura positiva dell’opinione cittadina, in un momento in cui tutto navigava in favore di un esito “straordinario” nell’ultima consultazione elettorale.Entrambi i grossi partiti erano in crisi, per ragioni di ordine nazionale o locale: il Pdl oramai legata ai destini calanti del cavaliere e il Pd in fase regressiva dopo gli ultimi anni di Bassolino.
Il sindaco di Napoli ha così potuto dire tanti no vincendo egualmente, con largo margine, essendo sostenuto solo dal partito di Di Pietro (ma de Magistris polemizza, un giorno si e l’altro pure, anche con quest’ultimo). Rimane che il primo cittadino della “capitale” del Mezzogiorno, con tutto quello che significa questa etichetta in termini di oneri e di oneri, privilegia il contatto diretto con le esperienze politiche e sociali di “base” tanto di moda negli anni della contestazione e dopo i rivolgimenti del ’68.
Questa è la cifra della nuova amministrazione partenopea: un luogo ove si disprezza il contatto con ciò che si è costruito negli anni o con tutti gli attori che hanno influenza oltre i confini comunali, per dare filo ad ambienti non istituzionali, ove l’immaginazione e l’emarginazione si tengono la mano così come avviene da secoli in certi anfratti della città del Vesuvio. Posillipo e la Sanità a braccetto e il sindaco nel cuore dei napoletani.
Sarà questa la formula vincente per dare slancio ad una città assediata da vecchi e nuovi problemi? Chissà. Prima o poi i conti si faranno, imperniati soprattutto sul confronto con le grandi città europee ove, al di la delle formule politiche, contano i risultati delle amministrazioni.
Ma c’è un confronto che potrebbe risultare ancora più significativo ed è quello della Napoli di oggi con la Napoli del passato. Una grande città ha bisogno di un adeguato quoziente di trasformazione, soprattutto nel settore dell’urbanistica e delle infrastrutture. Questo dato ce lo insegna la storia recente della stessa città. Una buona amministrazione deve condurre a termine quello che precedentemente è stato programmato, deve avviare nuove opere e programmare altro per chi verrà dopo.
De Magistris avrà la capacità (almeno) di avviare opere come la Tangenziale(anni ’70)?il centro Direzionale(anni ’80)?il sottopasso ferroviario(roba degli anni ’20) ?la metropolitana(degli anni di Bassolino)? Sarà capace di permettere ai turisti (quelli che ancora vengono a Napoli) di passare dal porto alla piazza Municipio evitando di essere messi sotto dalle auto? Oppure, sarà capace di porre termine (con qualcosa di utile) alla telenovela ventennale di Napoli Est?
Non basta gridare contro tutti e schermarsi dietro alle assemblee popolari(perché questo è in cantiere oggi) per non far nulla.
Come dice Macaluso “D’altra parte quando diventi sindaco devi amministrare: e quando amministri, una cosa sono le chiacchiere, un’altra le difficoltà di trovare soluzioni».

lunedì 17 ottobre 2011

E' difficile fare la rivoluzione.



E’ proprio difficile fare la rivoluzione o almeno indurre la classe dirigente a qualche significativo cambiamento quando non si hanno le leve del potere in mano. Perché di questo, paradossalmente, si tratta. Operai e contadini hanno fatto rivolte e rivoluzioni utilizzando il vero potere che è quello di essere ruota imprescindibile di un meccanismo o meglio del meccanismo produttivo. Ora che i saperi sono interconnessi ed intercambiabili, ora che si possono appaltare a Bombay o a Budapest anche i call-center e altre (più qualificate) attività di lavoro, cosa rimane per azionare la leva della rivoluzione?
Le lauree che si sprecano, i master, i saperi, le lingue, risultano del tutto improduttivi per imporre un vero cambiamento della società e non sarà il solito, l’ennesimo corteo, numeroso, con concentrazione in questa o quella piazza a preoccupare i potenti di turno. Gli indignati di oggi hanno solo carte da appendere al muro, nemmono hanno i forconi dei contadini o governano i pulsanti delle presse della fabbrica. Niente!
Potenti? No, qui non siamo di fronte ai capitalisti, ai padroni del vapore, della prima o seconda industrializzazione, qui siamo di fronte ad una classe dirigente, in senso lato, non solo quella politica, che vive di rendite sicure che hanno la loro origine nelle casse pubbliche. Non rischiano niente.
Vive di rendita il parlamentare, nazionale, europeo o regionale, vive di casse pubbliche tutta la più alta burocrazia di ogni apparato, vive di casse pubbliche l’imprenditore che vive di appalti con le amministrazioni pubbliche, il banchiere che ti prende per i fondelli solidarizzando con i protestatari. Tutti uniti a mantenere privilegi e prebende che si sono accresciute in maniera spropositata negli ultimi venti anni. Quelli che dovevano essere gli anni dell’economia di mercato e che si sono rivelati gli anni della furbizia pubblica, di chi ha capito che in Italia (soprattutto) bisogna stare dentro al sistema e per chi resta fuori c’è solo da sopravvivere.
Le manifestazioni di questi giorni descrivono bene lo stato dell’arte. Positivo il prologo del sit-in dinanzi alla Banca d’Italia per sottolineare che ormai è quello, tra gli altri omologhi, il palazzo delle decisioni importanti. Restando lì per ore ed ore, snobbando i palazzi della politica, i dimostranti hanno dato un grande segnale di consapevolezza della posta in gioco e di avere presenti i veri protagonisti dello sfascio planetario.
E invece non bastava a qualcuno: ci voleva il classico, ritrito, corteo con concentramento in una piazza per permettere magari a tre o quattro di avere il quarto d’ora di celebrità. Così non è stato, per ragioni sulle quali si discute animosamente in questi giorni.
L’unica soddisfazione per tanti che hanno partecipato o osservato il corteo di sabato rimane lo sputo in faccia a Pannella. Ora, con tutte le riserve che si possono avere nei confronti del pannellismo appare significativo il gesto perché rendeva più “nostrana” la giornata internazionale di protesta riproponendo la solita, ennesima, manfrina parlamentare della scorsa settimana ove le parti opposte si sono date al conteggio dei voti in Parlamento pro o contro il cavaliere. Ancora una volta, per come sono andate le cose, questo Paese dimostra di non riuscire a stare al passo con altri ove è scoppiata la protesta, rifugiandosi in una piccola, insignificante, storia che tanto rincuora o indigna le tifoserie avverse.
Questo Paese non cambia nemmeno di fronte ad una crisi economica devastante perché chi si indigna, oltre a non avere mezzi significativi per indurre al cambiamento, non trova culture politiche idonee e dunque non sa nemmeno quale strada prendere, perché tutte le forze politiche sono asserragliate nel Palazzo non avendo parole e idee per rappresentare il disagio e la povertà che vanno crescendo.
In questi venti anni hanno tutti suonato la stessa musica, per direttori d’orchestra che erano altrove. Ovunque, nel mondo, la protesta marca bene questo aspetto, in Italia è vietato dirlo.
Pro memoria: "Nel dicembre 1997, a 23 anni, Julia "Butterfly" Hill si è arrampicata in cima a una sequoia, battezzata Luna, per protestare contro l'abbattimento di una foresta di alberi millenari nel nord della California da parte della Pacific Lumber, una società nel settore della raccolta del legname.
Ne è discesa solo 2 anni dopo, avendo raggiunto con la Pacific Lumber un accordo di grande valenza simbolica, per la conservazione di Luna e degli alberi circostanti. Durante tutto questo periodo ha vissuto su una piccola e traballante piattaforma a circa sessanta metri di altezza, in balia delle tempeste, degli elicotteri della Pacific Lumber e dei suoi agenti di sicurezza che impedivano il passaggio dei rifornimenti."

giovedì 13 ottobre 2011

Un Paese "normale"



Bersani: “se arriveremo al governo, noi vogliamo essere alla testa di una disponibilità a cessioni di sovranità su base democratica verso una dimensione europea. Perché o si affronta questo tema e lo si guarda in faccia, o non si trovano le soluzioni”. (Agenparl)
La Dichiarazione di Bersani, segretario del Pd, fa il paio con quanto riferito da Berlusconi nel suo ultimo viaggio a Bruxelles quando ha implorato “l’Europa” di imporre una riforma delle pensioni,con l’innalzamento dell’età pensionabile. Praticamente il capo del Governo italiano attesta che in Italia non siamo capaci di fare le riforme chieste (imposte) dal duo Draghi-Trichet e così Bersani, per essere all’avanguardia, si offre per una più generale cessione di sovranità “all’Europa”.
Evidentemente non siamo un Paese normale e parecchi non se ne rendono conto. Con dichiarazioni di questo tipo la classe politica, attraverso suoi massimi esponenti, dimostra due cose. La prima è che non c’è più capacità di governo all’interno dei confini nazionali attraverso gli strumenti politici e istituzionali propri. La seconda dimostra ancora una volta in più che il mantra dell’”Europa” è una fede più che una scelta politica, perché in una situazione di crisi nella quale i tanti attori si muovono (anche) tenendo conto dell’interesse nazionale, i vertici di questo Paese mostrano di essere del tutto abbagliati per quello che si rivela sempre più a tanti un percorso di difficile attuazione, se non da abbandonare.
Mentre la Germania decide di non intervenire in Libia e decide se valgono o no per sé le scelte della Banca centrale europea e la Francia sta decidendo (perché di questo si tratta) a che prezzo è lecito far fallire la Grecia (tenendo conto degli interessi delle sue banche) l’Italia e i suoi leader decidono che vale ancora la pena di servire, taciti ed obbedienti, le decisioni prese, non dagli organismi europei, ma dalla Bce.
Converrà chiunque che ormai da mesi non si esprime il Parlamento europeo e la Commissione esprime vagiti per nulla significativi. Chi detta legge è la Bce, che governa nell’interesse del sistema bancario, come è oramai evidente a molti.
Sarebbe bello immaginare un sussulto di orgoglio capace di porre al centro dell’attenzione l’interesse di milioni di persone che in questi momenti attraversano una situazione di difficoltà economica, di imprese che perdono profitti e che falliscono, una politica capace di sfrondare il grasso che si è accumulato in questi anni e decenni intorno all’apparato pubblico. Capace di scovare risorse vere e non di dissanguare i soliti contribuenti. Capace di esprimere obiettivi ambiziosi, ma fattibili. Invece no, dato che non siamo capaci di risolvere da soli le storture che hanno determinato povertà ed ingiustizie ci rivolgiamo all’”Europa” con atti di suppliche o di fede per cose che non sappiamo imporci o perché ci rimettiamo alla sua generale volontà di governo.
A questo punto verrebbe da chiedersi quale è il senso di tutto ciò e dove si trova la fonte di legittimazione nei governanti di questo Paese: se non sai comandare o rimetti ad altri il potere di comandare, vuol dire che il comando non ti spetta.
Altro che polemiche sulle indennità grasse che percepiscono i politici in Italia, qui c’è da discutere proprio della legittimazione a governare.
Coraggio!Oltre alle solite questioni, nelle prossime settimane, la politica in Italia avrà da recepire l’ennesima direttiva comunitaria che prevede 1) che un bambino minore di otto anni non possa più gonfiare i palloncini (senza supervisione di un adulto) 2) che fino a 14 anni siano proibiti i fischietti che si allungano con una lingua colorata di carta 3) che fino a 14 anni siano proibiti i giochi di pesca magnetici 4) che gli orsetti – o simili – in peluche siano completamente lavabili.
Si prevede un ampio ed approfondito dibattito tra le forze politiche. Giornali e televisione daranno ampia notizia.

domenica 9 ottobre 2011

Arrangiatevi!



“Per l'abbattimento del debito servirà ricorrere a forme di finanza straordinaria in cui il Governo dovrà mettere in agenda una "patrimoniale morbida", la riforma pensionistica, un piano di dismissioni e se questo non basta, anche un condono edilizio e un condono fiscale. Non credo che l'etica si misuri sul condono”. Lo dice Fabrizio Cicchitto, a Saint-Vincent.
Queste affermazioni stanno a dimostrare (Cicchitto è il capogruppo alla Camera del Pdl) che la situazione economica in Italia è e rimane grave, nonostante le manovre assunte già a luglio e ad agosto di quest’anno, a tacer di quelle dell’anno passato. I totali delle manovre approvate appena poche settimane fa avevano di mira il pareggio di bilancio e dunque si “limitavano” a 40-50 miliardi di euro. Da qualche giorno si sussurra e si legge tra le righe che il Governo e dunque il Parlamento avranno a che fare prima, piuttosto che poi, con cifre diverse e ben più consistenti. Si parla di cifre intorno ai 400-500 miliardi di euro, perché sarebbe venuto a maturazione il dicktat, ovvero, la decisione della Banca centrale europea di attaccare il debito complessivo, storico, che, come si sa, ammonnta in Italia ad oltre 1.900 miliardi di euro.
I desideri dei banchieri europei vanno esauditi ed allora (sottovoce) si comincia da parte dei vertici politici a immaginare scelte ben più imponenti di quelle fin ora assunte. Tempi duri si prospettano, perché se milioni di italiani stanno già significativamente stringendo la cinghia, le ulteriori restrizioni di servizi sociali, gli ulteriori esborsi in termini di tasse o di patrimoniali, produrranno sofferenze individuali e collettive tali da determinare crolli economici a catena.
Cicchitto, insieme ad altri esponenti politici, parlano anche di condoni e dice che in momenti come questi non c’è spazio per parlare di etica. Ma qui non si tratta di etica, che può riguardare i ben pensanti pantofolai, qui si tratta comunque di soldi. Come la storia fiscale degli ultimi anni insegna, in questo Paese il condono diventa un premio per chi 1) ha alti redditi 2) ha evaso in maniera significativa. Chi ha evaso molto ma ha la Ferrari o, per dire, la casa a Montecarlo paga felicemente le cifre richiesta a sanatoria, perché il conto finale è comunque favorevole per lui. Il problema invece è per i tanti che soggetti, come sempre, alle minacce di ulteriori accertamenti e sanzioni sono costretti a pagare il condono anche se 1) non hanno avuto redditi significativi 2) non hanno potuto evadere. Queste due ultime condizioni spesso vanno insieme e quando si presenta il condono come minaccia e non come opportunità, i contribuenti, imprese o lavoratori autonomi che già arrancano di questi tempi sono soggetti ob torto collo a pagare l’ulteriore gabella. Si dice a Napoli:”cornuti e mazziati”!
Quale morale trarre da tutto quanto? Vengono in mente immagini in bianco e nero, quelle precisamente di Totò. La scelta è ampia: “I tartassati”, dove il contribuente Totò gioca a fare il furbo nei confronti del maresciallo della Finanza Aldo Fabrizi. Meglio ancora è il titolo di un altro film dell’indimenticabile comico: “Guardie e ladri”, dove bene si mette in evidenza la distanza tra la realtà e la norma, tra il rispetto formale della legge e la dura vita del cittadino qualunque. Quel clima di diffidenza reciproca tra Stato e cittadino è ancora presente e chi può, come Totò affermava, “si arrangia”. Questa è la natura del rapporto in Italia tra Autorità ed individuo: furbizia contro prevaricazione.
Ancora una volta il Principe della risata, insieme ad altri indimenticabili interpreti del cinema, spiega bene come vanno le cose in Italia. Conviene adeguarsi.

mercoledì 5 ottobre 2011

Gli irresponsabili



Non se ne può più. Questo Paese ha la classe politica che si merita perché c’è tanta gente che non sa cogliere i veri obiettivi, non sa fare le vere riflessioni e vive di indignazioni quotidiane, emozioni, mobilitazioni da internet, senza che seguano masse consapevoli. Le masse si muovono consapevolmente quando il quadro degli avvenimenti è chiaro ad ogni singolo partecipante e i vertici sono di esempio. E’ stato sempre così nella storia, in Italia oggi no.
L’emozione del giorno (il discorso è delicato) trova il suo epicentro in Barletta ove lo stato di degrado urbanistico edilizio ha prodotto altre morti (mentre, nel frattempo, si costruiscono capannoni senza alcuna utilità). La questione che accende gli animi è il dato remunerativo delle operaie che lavoravano nell’opificio coinvolto dal crollo. Poca remunerazione, troppo lavoro, poche garanzie. Tutto vero. Sta di fatto che in un momento di crisi economica questi dati sono la regola per tante altre realtà produttive e bisognerebbe capire (non giustificare) il perché della diffusa esistenza di situazioni di sottooccupazione e di precarietà. Certo se crolla il fabbricato e ci scappa il morto nasce una tragedia, ma quanti lavoratori giovani o anche maturi devono accontentarsi di 3,95 euro per ora di lavoro? Chi segue e si informa sa che è la regola ormai per milioni di lavoratori, anche occupati (precariamente) presso imprese importanti e anche presso amministrazioni pubbliche.
Oggi la realtà produttiva delle piccole imprese è questa e non sempre dal lato della proprietà vi è grasso che cola. Sarebbe bello un mondo fatto di bianco e nero, di ricchi con barca a Montecarlo e di lavoratori sfruttati. Sappiamo che non sempre è così e l’informazione seria, a partire da trasmissioni televisive serie (da ultima “Presa Diretta” di Riccardo Iacona) dimostrano situazioni complesse e di disperazione, anche da parte di datori di lavoro: piccoli e medi imprenditori, artigiani, lavoratori autonomi. Ci sono manifestazioni di protesta da parte di “produttori” (in Sardegna per esempio) che mettono bene in evidenza le difficoltà di imprenditori i quali per resistere alla crisi ed anche per non licenziare, hanno messo in gioco risorse personali e familiari rischiando e subendo fallimenti. Ci sono numerosi suicidi di imprenditori in questi ultimi anni. Il tutto avviene in una situazione di crisi economica rispetto alla quale il ceto politico in Italia concretamente nulla fa per alleviare le difficoltà, ma che fa di tutto per rendere ancora più difficile la realtà presente.
Bisognerebbe iniziare a capire, tra le altre cose, che i veri responsabili di certe morti, i responsabili veri delle remunerazioni a 3,95 euro all’ora si sanno ed hanno nomi e cognomi, vivono nei Palazzi dei poteri, del potere politico, economico, amministrativo. Chi vuole può informarsi, basta fare una ricerca cliccando i nomi che sappiamo e verificare quanto guadagnano. Cifre sbalorditive, soprattutto di chi vive di casse pubbliche, grazie a leggi infami che permettono cumuli di stipendio.
Dietro i morti di Barletta, dietro la disperazione di tanta gente, di lavoratori e di imprenditori, c’è l’irresponsabilità di tanti signori, con nomi e cognomi, che si sono divisi la torta a proprio favore, lasciando le briciole ai tanti altri. Sono i veri irresponsabili di questo Paese, quelli che hanno dissociato le loro tasche dal potere che hanno di decidere della vita altrui.
Sono quelli che spremeranno il limone fino alla fine pur di salvaguardare le loro tasche, senza che un sussulto di dignità gli permetta di mettere mano ai privilegi delle loro posizioni, così tanto per essere di esempio. Essere di esempio, appunto, roba da libro “Cuore” di De Amicis…altra storia…. questi sono vissuti con la pedagogia di Dallas!
Non lo faranno anche perché sanno che la gente si indigna per una palazzina che crolla e per la paga di un operaio a 3,95 euro all’ora e a nessuno verrà in mente tra gli indignati che quelle morti e quei salari sorreggono le poltrone di chi in questo Paese decide della vita degli altri senza responsabilità.
Chi vuole protestare per i morti di Barletta sappia capire dove si annidano gli irresponsabili-responsabili di questi drammi e tenga presente che la morte delle operaie di Barletta è uguale alla morte per suicidio di tanti imprenditori del Nord, tutti vittime di un sistema in cui i molti che decidono non subiscono né crolli, né crisi.

lunedì 3 ottobre 2011

L'America de noantri



I dipendenti del Comune di Caserta non trovano gli stipendi in banca perché il denaro del Comune è stato pignorato dai creditori. E’ il segnale che le cose veramente vanno male? O è il risultato di colpevoli distrazioni in una situazione ove tutti sono portati a pensare, in Italia, che il servizio pubblico non può mai fallire. E’ nella memoria storica di diverse generazioni che il rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche costituisce un’ancora sicura nella precarietà del più ampio mondo del lavoro. Eppure molte cose sono cambiate negli ultimi tempi. La crisi economica fa venir meno certezze consolidate e mette in luce tutti i disastri che sono stati prodotti a danno delle amministrazioni.
Erano gli anni della svolta, tra arresti e cambi di leggi elettorali (quasi come adesso) che si immaginò di strutturare le amministrazioni locali come aziende e, di riforma in riforma, si è modellati quelle organizzazioni in netto contrasto con fondamentali principi che le sorreggevano da decenni.
I comuni, le province, hanno perso i normali controlli. Da controlli affidati a organismi, anche fisicamente, distanti, a carattere provinciale, sono passati a controlli interni, proprio come aziende commerciali, confidando nell’etica, nel senso di responsabilità dei soggetti chiamati a svolgere quella delicata funzione. Di fatto, le nomine dei componenti dei vari organismi di controllo si sono rivelate ulteriori occasioni per sistemare o foraggiare clienti elettorali, con la ovvia conseguenza di far venir meno quella necessaria terzietà che è caratteristica prima di chi è controllore rispetto al controllato.
La retorica che voleva amministrazioni più efficienti e rapide ha imposto i dirigenti a contratto, ovvero soggetti provenienti dall’esterno rispetto ai ruoli delle amministrazioni. Con contratti che sono legati ai tempi e alla volontà dei vertici delle amministrazioni, va da se che l’autorevolezza e la indipendenza assicurata (in via di principio) dal superamento di un concorso e dalla stabilità del posto di lavoro viene meno con tecnici chiamati a supportare le voglie del vertice politico, pena la revoca dell’incarico.
La assoluta libertà che viene praticata in Italia in materia di scelta del contraente per le necessità di forniture e di lavori(così come assicurato da recenti indagini in campo nazionale) fa si che anche le spese degli enti pubblici locali abbiano ormai una crescita notevole, tale da mettere a repentaglio gli equilibri finanziari.
Ora, a Caserta, ma non solo, avranno anche preso qualche svista, qualcuno magari non avrà salvaguardato l’impignorabilità degli stipendi, come pure la legge prevede, ma resta il fatto che per amministrazioni regolate con quel sistema, succintamente descritto e relativo ai controlli e alla direzione degli uffici, non ci si può meravigliare che il debito pubblico sia ormai esploso.
In questi anni abbiamo avuto molti amministratori che parlavano inglese, perché la mutazione doveva essere completa e visibile, e così abbiamo bilanci pubblici redatti con tutto l’armamentario linguistico della finanza speculativa. Faceva tanto moda e quindi bisognava farlo anche a Roccacannuccia.
Insomma ci è andata male. Volevamo fare gli americani e stiamo per saltare in aria, così come la Grecia ed altri Stati.
Sarebbe il caso di ritornare alle amministrazioni con controlli seri e funzionari capaci di dire no, quando occorre, invece si prepara il federalismo: l’ultima mazzata.