
Punto della situazione.
Dopo un paio di anni in cui il sistema informativo, utilizzando le intercettazioni più o meno giudiziariamente giustificabili, ha alimentato il dibattito sul Bunga Bunga, il Paese è sprofondato. Chi volesse può leggere negli archivi le prime pagine delle maggiori testate nazionali e troverà conferme: fino a giugno scorso si parlava d’altro e non di crisi. Il ricordo delle più note trasmissioni televisive di informazione da lo stesso risultato: Ballarò, Anno zero ed altri hanno riempito serate con quei temi.
Il risultato è che oggi si arranca, ci si aggrappa a idee vuote (encomiabili le nuove leve: roba che nemmeno alla V elementare!...) e si finisce per condividere tutto, perché i fondamentali pilastri sui quali si regge il Paese sono ampiamente accettati da tutti.
Come era prevedibile l’Italia si trova in un momento difficile, molto vicina alla Grecia, con tutti i distingui che pure vengono sbandierati(tanto per darsi coraggio).
Mentre autorevoli economisti (Paul Krugman) mettono in dubbio la validità stessa del sistema monetario europeo (una moneta senza governo e senza cittadinanza comune somiglia alle fisches del Monopoli) le forze politiche si contendono la maggiore capacità di attuare quanto chiesto dalla Bce. A parte la questione della maggiore “facilità di licenziare” (idea che il cavaliere accolla al parlamentare Pd Ichino) su tutto il resto vi è quasi una generale accettazione.
Senza entrare nel merito dei singoli punti, l’eccezione che si può sollevare rispetto a quanto sta accadendo riguarda una questione fondamentale ovvero se si tratta di impegni relativi a politiche di bilancio o si tratta, come è, di un vero è proprio programma di governo. E se è così si pone sempre di più un dubbio sulla persistenza o meno del concetto di sovranità che costituzionalmente promana dal popolo attraverso l’esercizio dei suoi poteri diretti o mediati. Qualcuno ha ancora voglia di citare l’articolo 11 della Costituzione sulla “ cessione di sovranità”? Attendiamo i prossimi mesi per chi avesse voglia di ripetere la solita litania imperniata su questo punto, quando(inevitabilmente) le piazze si riscalderanno.
Nel frattempo, privatizzazioni e liberalizzazioni, tanto per aprire la strada agli acquirenti, già in fila.
La verità è che nemmeno sull’orlo del baratro la classe dirigente di questo Paese è capace di trovare una soluzione e strumenti per risolvere i problemi presenti. Ancora non si scorge una presa d’atto su alcuni fondamentali incongruenze del sistema Italia.
Questo Paese soffre di alta pressione tributaria e di notevole spesa pubblica e nonostante tutto si ha notizia giorno dopo giorno della persistenza del famoso principio dei “diritti quesiti” per cui rendite consolidate (nel sistema pubblico) non possono essere toccate per “ragioni di giustizia”. Per fare un esempio, i doppi stipendi alla Catricalà hanno ancora ragione di esistere in questa situazione? e le pensioni d’oro alla Giuliano Amato? E gli emolumenti da manager nelle pubbliche amministrazioni(con l’imperdibilità del posto di lavoro, all’italiana)?
Una classe dirigente che non ha la capacità di rinunciare ai favori che si è concessa negli anni non può che vendere la pelle di tanti che arrancano, pur di sopravvivere.
Una classe dirigente orgogliosa del proprio ruolo saprebbe assumere decisioni, sia pure dolorose, ma capaci di ridare una prospettiva al Paese.
Il mondo non finisce con l’Europa e nemmeno con gli Usa(anche là ci sono scontri e proteste). Ci sono Stati che hanno affrontato crisi gravi e ne sono usciti con decisioni forti. Se continuiamo a seguire la Banca centrale europea che è preoccupata dall’ossessione di evitare la crescita dell’inflazione(perché il debito pubblico da versare alle banche non svaluti?) non ci sarà modo di uscire dalla crisi. Se diciamo si al diktat della Bce (del marzo scorso) e relativo al rientro al 60% per il limite del debito pubblico, conviene “portare i libri in tribunale” perché non ci sarà modo di adempiere. Soprattutto, se fosse questo il programma di governo basterebbe sostituire Governo e Parlamento con un buon amministratore, visto che non si offrono alternative credibili da parte delle forze politiche.
La tanto decantata crescita non ci sarà per il semplice fatto che la regolamentazione, i principi di governo dell’economia, che ci hanno portati a questa situazione non sono affatto cambiati. Gli Stati pagano le banche con i soldi dei cittadini, mediante tagli ai servizi e con aumento delle tasse. Le frontiere commerciali sono aperte e non c’è il minimo accenno a politiche di protezione della produzione(quella che è rimasta) di fronte alla concorrenza spietata dei Paesi extraeuropei. Altri Paesi assumono protezioni per favorire produzione e occupazione nazionale, in Italia no. Vedremo.
Nel frattempo l’Europa accetta prestiti dalla Cina, per prendere un po di ossigeno(proprio come debitori in stato prefallimentare). Ovviamente niente arriva gratis. Si è già compreso il prezzo da pagare:”la Cina si aspetta che l' Europa le riconosca lo status di economia di mercato. È qualcosa che i cinesi avranno automaticamente nel 2016, ma vorrebbero prima. Non per prestigio, ma perché non essere considerati economia di mercato comporta una penalizzazione quando si devono stabilire i prezzi equi nei casi di dispute antidumping. In qualche modo, Pechino vuole che i membri della Ue la smettano di sollevare questioni di concorrenza sleale (e magari di copyright).”
Nulla viene a caso: sarà la mazzata finale in nome del Credo della Globalizzazione ( a carico dei fessi).
Nel frattempo chi può si attrezza. Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Vicenza dice:”Creare relazioni con l'America Latina significa entrare in contatto con una realtà affine, che ama il Made in Italy e in forte espansione. Nel 2010 ha visto il Pil crescere in media del 6,9%, contro un dato mondiale del 3,8. Brasile e Argentina, vista la presenza di forti dazi, si prestano per operazioni di internazionalizzazione, con la creazione di unità produttive in loco. L'opportunità è valida per tutti, non solo per investimenti da milioni di euro».
Come dire: a questo punto anche per le imprese è tepo di emigrare.





