John Maynard Keynes (proprio lui) nel 1933 scriveva in “National Self-Sufficiency”:
«Come la maggior
parte degli inglesi, sono stato educato nel rispetto del libero scambio,
considerato non solo come dottrina economica che nessuna persona razionale ed
istruita potrebbe mettere in dubbio, ma come un elemento della morale.
Consideravo le offese a questo principio come stupide e scandalose. Pensavo che
le inconcusse convinzioni dell’Inghilterra in materia di libero scambio,
mantenute da più di un secolo, spiegassero la sua supremazia economica davanti
agli uomini e a Dio».L’economista, che conosciamo soprattutto come propugnatore di sviluppo economico anche in fase di crisi economica, spiega in questo testo come e per quali ragioni è doveroso ed utile tutelare l’economia nazionale. Attenzione, per i cuori deboli: Keynes non è un bieco conservatore o peggio ancora, ha (lui) davvero a cuore l’economia di mercato.
«Mi sento più vicino a chi vuol diminuire l’interdipendenza delle economie nazionali, che a coloro che la vogliono accrescere».
A questo punto non risulta difficile capire il perché, anche non approfondendo la lettura del testo. Era comune conoscenza, un tempo, dei guasti provocati dall’espansione del cosiddetto “neocolonialismo” ovvero l’introduzione di economie, per esempio in agricoltura, imperniate sulla monocultura o sull’abbandono di settori economici per altri, assecondando le voglie di maggiori profitti degli investitori: impoverimento delle terre, penuria di beni, abbandono delle campagna con ricadute in termini ambientali e di sicurezza del territori. Conseguenza ancor più significativa: la perdita di conoscenza del “saper fare” soprattutto nel manifatturiero o altri settori importanti per un’economia bene strutturata.
Keynes continua:«Tendo a pensare che, dopo un periodo di transizione, un grado più alto di autosufficienza nazionale ed una maggiore indipendenza economica fra le nazioni di quella che abbiamo conosciuto nel 1914 possano servire la causa della pace, piuttosto che il contrario».
Da Fukuyama in poi la cantilena del Pensiero unico ci predigeva un mondo ormai pacificato ove non c’era più spazio per le guerre. Previsioni infondate. Da dieci-quindici anni il mondo conosce una guerra all’anno, guerre che nascono con schemi uguali e con attori sempre presenti. Il binomio pace e globalizzazione si rivela infondato.
«Se si potesse evitare la fuga dei capitali, opportune direttive economiche interne sarebbero più facili da attuare. C’è un vero divorzio tra i proprietari del capitale e i gestori delle imprese, quando, a causa della forma giuridica delle aziende, il loro capitale è suddiviso tra una miriade d’individui che comprano azioni oggi, le rivendono domani e non hanno la conoscenza né la responsabilità di ciò che possiedono per poco tempo. Questo è già grave all’interno di un Paese; ma le stesse pratiche estese su scala internazionale diventano intollerabili in periodi di tensione».
Ecco, appunto, la scissione tra impresa e proprietà, tra capitale e territorio, determina l’impossibilità di decidere politiche economiche, politiche industriali, e il governo dell’economia si riduce a rincorrere lo “spread” con artifici contabili che lacrime sangue costano ai popoli, come in Grecia, in Spagna, in Italia…
Nel frattempo, mentre i nostri governanti invocano ancor più Europa(mentre altri perseguono interessi nazionali) e più mercato (il mercato degli altri, ovviamente) le fabbriche chiudono e si svende il patrimonio pubblico.
Coerenti!: viviamo in un mondo globalizzato.



